…. SUL PELO DELL’ ACQUA….


Le parole sono come vascelli che solcano il mare della nostra interiorità, lo attraversano per raggiungere il porto sperato che è l’altrove. A volte le parole sono come i salmoni, si trovano a nuotare in acque che vanno controcorrente. Le parole vorrebbero uscire, entrare in mare aperto per puntare l’orizzonte, ma si ritrovano a combattere con quella forza che impedisce loro di prendere il largo. Così rimangono ormeggiate al porto, ancorate dalla profonda e abissale paura di rischiare la pericolosa navigazione verso l’oltre. Eppure, quei vascelli sono carichi: le stive colme di pensieri, emozioni ancora chiuse negli imballaggi, sentimenti mai scartati e sbocciati, gesti abortiti e buttati in mare come acqua sporca.

Sono così le parole dei ragazzi. A volte guardandoli da quella posizione frontale così scomoda e cosi privilegiata, mi piace pensare all’immensa flotta nascosta dietro quei volti. Solo qualche fragile zattera si muove verso di me chiedendosi se troverà acque accoglienti oppure onde anomale capaci di portarle via e distruggerle. Meglio attendere. Non rischiare. Allora mi fermo, lontano dalla loro riva e li chiamo: vieni, arriva fino qui! È quello il momento più bello, quando queste giovani e leggere vele, a volte già segnate da incidenti di percorso, cominciano a muoversi e lasciare la sicurezza del porto chiuso per fidarsi della visione, dell’orizzonte e di loro stessi, creati per solcare quelle onde, ognuno secondo la sua rotta.

Sempre più spesso i giovani sono colpiti da chi non vuole farli veleggiare e vivere liberamente, studiando e affinando strumenti di tortura e di morte capaci di inghiottirli, come una enorme balena blu, Blu Whale, appunto. Questa spirale dell’orrore cosi impalpabile da far dubitare alcuni della sua effettiva esistenza risucchia la vita, dissangua i cuori della loro linfa, li annienta inducendoli ad annegare negli abissi divenuti troppo oscuri per poter cercare o desiderare la luce. Il mondo interiore viene occupato interamente da un surrogato virtuale così convincente da prendere tutto lo spazio e il tempo. “Riprendetevi la vita”, dice il curatore a coloro che, stimati degni di compiere l’atto finale, affrontano l’ultima sfida che li renderà nuovamente liberi dalle catene. Philipp Budeikin, ideatore di Blu Whale, ha affermato : «ho fatto morire quelle adolescenti, ma erano felici di farlo. Per la prima volta avevo dato loro tutto quello che non avevano avuto nelle loro vite: calore, comprensione, importanza». Dunque, volevano calore, comprensione, importanza… volevano vita. Allora, perché?!

Non si tratta solo di Blue Whale. Essa è solo un simbolo distorto, rigurgito acido del male. Si può imputare la “colpa” all’impersonale società, all’inadeguatezza del mondo adulto troppo perso a ritrovare se stesso, alle nuove tecnologie, alla fragilità giovanile di cui oggi tanto si parla che impedisce loro di avere strumenti e risorse interiori. Se un giovane, un giovane di sedici anni, decide di porre fine alla sua vita lanciandosi nel vuoto, tagliandosi le vene o impiccandosi, di chi è la responsabilità? Comincia la caccia alla balena degli abissi, al grande accusatore che abita nel profondo del mare, alle miriadi di correnti e grotte sotterranee in cui può annidarsi il pericolo e di cui solitamente i sedicenti adulti non sanno nulla. Tutti impegnati là sotto, nessuno rimane in superficie, a pelo d’acqua, su una piccola imbarcazione a chiamare, gridare disperatamente a quelle navi rimaste ormeggiate, a contrastare il richiamo degli abissi, indicando la luce, l’orizzonte, il futuro. Nessuno. Tranne uno.

Quella notte la barca solcava acque agitate dal vento contrario. Le acque riflettevano l’oscurità del cielo e, lasciandosi sconvolgere dalle correnti, facevano faticare quegli uomini, già vinti dal timore. Lui li aveva costretti a salire sulla barca, a precederlo sull’altra riva. Ora erano soli. Come li avrebbe raggiunti? Fu allora che lo videro, Signore della terra, degli abissi, del cielo, camminare sull’oscurità, sulla morte. “Coraggio, sono io, non abbiate paura”, annuncio delicato e forte di una presenza che chiama e desidera quella dell’altro, eco della voce dell’Amato del Cantico dei Cantici che invita la creatura a uscire dalle fenditure della roccia, “vieni amica mia, mia bella”.

È inutile negare la pericolosità delle acque o impedire che qualcuno si arrischi nella navigazione – entrambi gli atteggiamenti degenerano in patologie – ma si può dare ascolto all’unica parola che viene da quell’uomo che una volta ha camminato sulle acque e invitato i suoi a fare altrettanto: “Vieni!”. La Parola chiama le parole, quelle chiuse ancora, quelle congelate dalla paura, a salpare verso di Lui, verso una Persona! Se il mare si mostra infinito e disabitato chi vorrà partire? Ma se poco lontano da riva, si intravede una figura e si ode la Parola, allora, forse, anche nel cuore più fragile e tramortito potrà accendersi la speranza, quella meravigliosa luce che attraversa ogni uomo quando nasce alla vita nuova.

Cosa fare, dunque, se non rimanere aggrappate a quella barca e continuare ad aderire a quella voce che un giorno ci ha strappati da noi stessi, per continuare a chiamare quelle piccole barche laggiù, ancora ormeggiate, lasciate così … galleggianti …. sul pelo dell’acqua….

 

Sr. Sara Capelli